Quasi ad opporsi alla progressiva disumanizzazione della vita e dell’arte che, rimandando soltanto a sé stessa, inevitabilmente si annienta, Giorgio Bernardinelli sembra aver acquisito una nuova dimensione del tempo atta a tradurre le cose in profezie e le profezie in cose. I colori della roccia e della carne, della sabbia e del cielo selezionano un presente rinnovato, in cui passato e avvenire si fondono e l’uomo può riconoscere lo stesso inebriante fermento dell’anima che, nel dire e nel dirsi, inventa e ritrova la propria unità originaria.
Crocifissa al tronco della propria storia, la libertà ci osserva come un animale da soma, grigio e immobile; un peso ci trascina giù nel fondo, improvvisamente restituiti alla legge della pietra, del ferro, della materia inerte. Ma ecco, una finestra si accende nella notte, un cavallo di candida spuma corre leggero verso l’ignoto; il plenilunio del cuore penetra i sensi e li unisce in una dolcezza sconosciuta alla nostra carne. Questo è il paesaggio da evocare, il palinsesto da riscoprire: il nome segreto, sequestrato nelle viscere umane e divine di ognuno, quasi una candela accesa, altissima che, oltre il filo spinato della separazione e dell’angoscia, congiunge il cielo e la terra in un bagliore d’aurora. Ed è quanto ci resta, in fondo, del sogno di Dio, visto soltanto da chi ha attraversato la vita conservando lo spirito d’infanzia. Il santo sa che nel confidente abbandono si prepara la via: e lascia che il dolore del mondo gli pesi sul cuore fino a spezzarlo, fino ad accoglierlo nelle sue viscere come un figlio, così da trasformare il lamento in sorgente, e la sorgente nel fiume d’azzurro che solo può traghettare gl’infelici alle rive dell’eterno.
Ma questa sorgente-sembra chiedersi l’artista-questo fiume d’azzurro non è forse il pianto segreto di Dio nel cuore dei Suoi figli?
Luciana Oliveri
